lunedì 9 maggio 2016

Nella sorgente dell'Arno

Capo d'Arno
Cosa fa di una sorgente un fiume?
Certamente la morfologia del terreno. La pendenza determina la velocità dell’acqua, la capacità di intercettare e accogliere da subito altri rii da altre sorgenti e poi la forza di disegnare l’incavo del letto fino a farne torrente che a sua volta si alimenta di affluenti fino a che l’incontro con la pianura ne allarga il letto, ne stabilizza la portata e ne acquieta la corrente.
Capita così almeno a Capo d’Arno, a quota 1372 sulle pendici meridionali della Falterona. Un impluvio tra grandi massi di arenaria, dove le acque della sorgente trovano uno spazio angusto tra lo strato roccioso sotterraneo e la coltre di detriti in superficie per essere restituite a giorno. Fino a Molin di Bucchio l’acqua corre veloce e non conosce che il bosco, il salto, la forra, il sasso dilavato, il tronco abbattuto e non ancora le briglie, la chiusa, l’argine, il canale e con essi l’uomo e il corso delle sue storie.
Nella vita di un fiume la sorgente rimane un luogo casuale e oscuro. Casuale nella collocazione geografica perché solo trecento metri più a sud dello spartiacque tosco-emiliano condannano l’Arno a scavare un bacino idrografico dalle traiettorie singolari ma destinato comunque a finire in bocca al Mar Ligure. Oscuro perché sconosciuto e notturno è il corso dell’acqua quando cade dal cielo e s’incontra con la terra, s’infiltra  nella roccia, s’incaverna nelle falde per essere poi restituita a giorno.  
Non tutte le sorgenti si fanno fiume, solo quelle che danno alla luce acque perenni. Non si è fiume se non si è perenni, se non si rinnova in ogni tempo e con ogni stagione quella semplice promessa di senso di scorrere da monte a valle e a mare, avendo origine dall’oscurità della terra.
Forse occorrerebbe avere il senso dell’acqua per la propria origine e il proprio scorrere per sapere cosa fa di una sorgente un fiume, di una  nascita una vita e di una vita una storia. E’ quel senso barbarico del paesaggio, dell’elemento e dell’acqua che aveva un poeta come Dino Campana che dopo aver camminato in questi boschi scriveva: «Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiume docile a valle solo riempie del suo rumore di tremiti freschi, non basta la pittura, ci vuole l’acqua, l’elemento stesso, la melodia docile dell’acqua che si stende tra le forre all’ampia rovina del suo letto, che dolce come l’antica voce dei venti incalza verso le valli in curve regali: poi chè essa è qui veramente la regina del paesaggio

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