Mappa metrò di Parigi |
Il metrò è un luogo senza un luogo. Camminare nel metrò è camminare sottoterra. E' un camminare di servizio. Un transito da un non luogo ad un altro non luogo. Gli sguardi sono fissi alla meta, al prossimo bivio per scegliere dove andare. Camminare nel metrò è come muoversi in un labirinto dove il proprio destino è affidato a un filo colorato di linee, a nomi di capolinea. Non valgono punti cardinali, non c’è sole o costellazioni a orientare il passo. A cosa serve una bussola in un metrò? L’orientamento è visivo e nominale. Dipende dalla mappa mentale che ci siamo costruiti con il tempo, con i passaggi, con i pochi punti di riferimento che troviamo sul cammino. Cosa succederebbe se una mano fatale, in una notte di follia, cambiasse le indicazioni nei principali nodi di questo immenso reticolo in cui si muove un impetuoso flusso vitale? Sarebbe un caos di vite, una fonte di inedite coincidenze, di default esistenziali e professionali, di nuovi inizi, di improvvisi e totali smarrimenti. Possibile? Forse questa è la vera ragione delle tante, troppe telecamere che controllano ogni angolo di questi sotterranei.
La metafora facile che viene alla mente, guardando la mappa del metrò, è quella di un apparato circolatorio dove gli esseri umani sono sangue che scorre vorticoso: sangue venoso e arterioso, più o meno ricco di ossigeno. Le stazioni sono organi vitali di questa città sottocutanea. La seconda metafora è quella del circuito elettronico dove l’essere umano è un bit, un’unità informativa, che cerca di portare il suo messaggio a destinazione rispondendo ad ogni bivio, ad ogni fermata, alle risposte nette della logica binaria che non ammette dubbi, che non chiede esitazioni.
Nel campo visivo di chi cammina nel metrò vi sono prima di tutto i volti. Lo sguardo di sfuggita, l’incrocio di tensioni alla meta. Questo raccontano i corridoi: corpi in movimento e occhi che catturano un particolare nella massa indistinta con l’assoluta evidenza di una libera associazione di idee. Dove vanno le traiettorie degli sguardi? Davanti a sé, senza dubbio: diritti alla meta. E poi a terra a controllare il passo, la presenza di un ostacolo, l’inciampo di un gradino. Occhi e piedi, capelli, cappelli, scarpe, stivali, calze e calzoni. Tutto si assomiglia e quello che colpisce lo sguardo dopo un attimo svanisce nel nulla, come non fosse mai esistito.
Nel vagone del metrò invece lo sguardo cambia, si posa, si ferma. Entrare nel vagone è come entrare ogni volta in un mondo diverso. Il passo, la corsa è costretta a fermarsi e ad accettare l’incertezza dell’incontro casuale, senza possibilità di fuga fino alla prossima fermata, fino alla propria fermata. E’ così che lo sguardo si fa indagatore, diffidente e curioso insieme. Alla ricerca dell’insidia, del possibile pericolo e dell’incontro imprevisto. Un mondo ogni volta diverso: lingue diverse, pigmenti diversi, abbigliamenti diversi, comportamenti diversi che nascondono storie diverse. Un mondo di storie che si rinnova ad ogni fermata. C’è però chi sta nei vagoni senza guardare gli altri. Ascolta musica, legge un libro o un quotidiano, usa un cellulare, dorme: passa il tempo come oltrepassa lo spazio che lo separa dalla mèta: sta nell’attesa. Qualcuno parla da solo.
I suoni del metrò sono i passi: il rumore dei passi, il fruscio dei vestiti, un brusio di respiri e di voci rotto ogni tanto dal suono di una chitarra, di una fisarmonica che nei nodi più importanti si fa concerto. Nelle stazioni l'attesa è interrotta dal rumore delle motrici in arrivo e delle porte che si aprono e si chiudono, segnalate da una sorda sirena. Una voce femminile gentile e impersonale annuncia due volte i nomi delle fermate: punti di orientamento sonori del cammino. Sarebbe facile porre l’accento sui suoni dissonanti di questo paesaggio sotterraneo ma la maggior parte delle esistenze contenute in queste gallerie contribuisce a quel rumore di fondo. Noi siamo quel rumore di fondo, vi siamo immersi, vi contribuiamo con il nostro passo.
Sui vagoni del metrò |
Le stazioni sanno di ferrovia e di sala d'attesa. Odore di chiuso e di stantio. Odore di aria sospesa, interrotta da una zaffata acre di sudore del vicino che passa, di cibi precotti rovesciati, di rifiuti abbandonati. Profumi di donne e di uomini, raffinati o dozzinali, che si mescolano e dileguano. Poi improvvisa l’aria gelida dell’uscita nell’inverno della città di sopra.
Il senso del tatto in metrò è affidato prima di tutto ai piedi. Cammina, cammina e i piedi alla fine della giornata dolgono e, insensibili, non riconoscono più la superficie liscia dei sotterranei. Formicolio di formiche. Ma il tatto nel metrò è il senso dell’insicurezza. E’ la stretta incerta al tubo metallico del vagone a cui affidiamo il dondolio del corpo in corsa. Al tubo restiamo attaccati come al relitto tra le onde, avvinghiati a contrastare gli scarti bizzosi del vagone in galleria, sulle curve e sugli scambi, sulle partenze e sugli arrivi. Qualche volta però ci sorprende e allora pardon è d’obbligo per il contatto inevitabile e involontario, spesso incauto e imbarazzante. Mani che si aggrappano improvvise alla ricerca di un appiglio; schiene e fianchi che combaciano a varcare i confini invisibili dell’intangibilità dei corpi, prossemiche infrante e poi rapidamente e affannosamente ricomposte. Pardon e ci si avvicina. Pardon e ci si allontana. Pardon e ci si apre un varco. Pardon e si esce a riguadagnare il passo verso la meta. Pardon è la password di un corpo in movimento costretto dal caso e dall’errore ad entrare in contatto con altri corpi. E’ la parola d’ordine per entrare e per muoversi in questa città sotterranea che si chiama metrò e per uscirne sani e salvi a rivedere il cielo.
Puoi continuare a camminare qui
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