martedì 25 novembre 2014

Fare una montagna

Massimo Mila
Di che cosa si parla durante un’escursione?
Molto spesso di altre escursioni. E le conversazioni assumono la forma di monologhi paralleli che qualche volta convergono intorno a un luogo, al nome di una cima o al ricordo di un rifugio per poi tornare a distanziarsi in traiettorie distinte, lungo sentieri che portano verso mete diverse. Sono conversazioni in cui domina il fare rispetto all’essere, in cui i luoghi, le cime, i rifugi diventano spesso le istantanee di un album di figurine o le immagini di un campionario di prodotti consumati o da consumare. Sono conversazioni in cui spesso predomina il che cosa e il quanto rispetto al come e al perché. E in tutto questo sono i luoghi che spariscono, che perdono sempre più di significato per divenire lo sfondo opaco di performance atletiche, di passatempi consolatori o di pratiche terapeutiche.
Viviamo una stagione di escursionismo di massa dove l’ansia per la sicurezza e il bisogno di ridurre e controllare il rischio ci tengono in gruppo, ma nell’intimo ci scopriamo spesso camminatori solitari e un po’ smarriti. E’ in questi momenti che occorre riscoprire il giusto significato dell’espressione fare una montagna, così come l’intendeva Massimo Mila nell’immediato dopoguerra, dopo avere trascorso sette anni in carcere e due in montagna, nella Resistenza, dopo avere ripreso la passione giovanile per l’alpinismo ed essere diventato uno dei più raffinati storici della musica. Basta guardarlo negli occhi, in questa foto segnaletica della polizia fascista. 
E’ in questi momenti che occorre riscoprire il senso dell’escursionismo e dell’alpinismo come esplorazione, come conoscenza e pratica della natura e di sé stessi in relazione alla natura.

mercoledì 19 novembre 2014

Boccaor e l'innocenza del paesaggio


Questo è un luogo che ha perso la sua innocenza. 
Questo pensiero ti coglie come un colpo di fucile, quando arrivi sul crinale tra le cime del Monte Boccaor e del Monte Meatte, salendo dalla Valle di San Liberale, lungo il sentiero CAI 153. Un colpo solo, che rimbomba tra le nuvole basse, nell’aria umida densa di pioggia  e ti tasti per sentire se ha colpito nel segno. 
Ti  guardi intorno smarrito perché non c’è orizzonte o giro di monti con cui orientarti. Sul crinale, tra la nebbia, segui il filo dei passi e il sentiero, senza quasi che te ne accorgi, s’infila in una trincea della Grande Guerra che  ti accoglie e ti avvolge: una parete di terra e sassi che arrivano al petto. Abbassi lo sguardo e vedi il fango che imbratta gli scarponi da escursionismo  e ne immagini altri chiodati e lerci di escrementi, vomito  e sangue che ristagnano nauseati piuttosto che uscire allo scoperto. Alzi lo sguardo e segui la lunga ferita scura che corre sul cotico erboso, scavata seguendo il profilo del crinale, ad un passo dal dirupo, come la ruga profonda su un volto smagrito.