mercoledì 19 novembre 2014

Boccaor e l'innocenza del paesaggio


Questo è un luogo che ha perso la sua innocenza. 
Questo pensiero ti coglie come un colpo di fucile, quando arrivi sul crinale tra le cime del Monte Boccaor e del Monte Meatte, salendo dalla Valle di San Liberale, lungo il sentiero CAI 153. Un colpo solo, che rimbomba tra le nuvole basse, nell’aria umida densa di pioggia  e ti tasti per sentire se ha colpito nel segno. 
Ti  guardi intorno smarrito perché non c’è orizzonte o giro di monti con cui orientarti. Sul crinale, tra la nebbia, segui il filo dei passi e il sentiero, senza quasi che te ne accorgi, s’infila in una trincea della Grande Guerra che  ti accoglie e ti avvolge: una parete di terra e sassi che arrivano al petto. Abbassi lo sguardo e vedi il fango che imbratta gli scarponi da escursionismo  e ne immagini altri chiodati e lerci di escrementi, vomito  e sangue che ristagnano nauseati piuttosto che uscire allo scoperto. Alzi lo sguardo e segui la lunga ferita scura che corre sul cotico erboso, scavata seguendo il profilo del crinale, ad un passo dal dirupo, come la ruga profonda su un volto smagrito.
La natura ha fatto il suo dovere, dopo quello crudele dell’uomo: ha riconquistato il terreno perduto; è tornata a colonizzare gli spazi abbandonati  dalla guerra e dalla violenza estrema; ha accompagnato la forza  vitale della rimozione; ha assecondato i  tentativi di elaborazione del lutto. Ha sommato trasformazione a trasformazione, restituendoci l’inedito paesaggio di una decomposta fiera che, al netto del dare e dell’avere del tempo, ha perso comunque irrimediabilmente  la sua innocenza.
Nei paesaggi della guerra e in quelli della memoria della guerra, non c’è innocenza. Forse non esistono paesaggi innocenti. Forse l’innocenza del paesaggio è un ossimoro. Qualcuno cerca l’innocenza ad oriente, nei paesaggi primordiali del mito e delle origini oppure, come diceva Thoureau , a occidente, nella frontiera o in quello che ne resta.
Se un luogo, però,  ha perso l’innocenza allora vuol dire che qualcuno è colpevole, che qualcuno porta la responsabilità di ciò che è sotto i nostri occhi. Forse per questo in ogni paesaggio è insita la traccia di una colpa, la premessa e la promessa di una storia, la prova di un delitto, l’ombra di un mistero. Non è forse quello che ci dice la cronaca tragica di queste giornate di novembre? Forse è sbagliato attribuire ai luoghi sentimenti, virtù o vizi umani, ma se non fosse così non sarebbe paesaggio. Verrebbe meno quel tratto di carattere, quell’identità, quel geniusloci, che fa del paesaggio un precipitato di tutte le relazioni tra uomo e natura che si concentrano  in un luogo determinato.
Ma torniamo con i piedi per terra. Siamo saliti per 900 metri di dislivello per un lungo sentiero a stretti tornanti che, partito in bosco, ha raggiunto il crinale tra spoglie pareti a strapiombo. E’ diventato strada di arroccamento fatta di gallerie, rifugi scavati nella roccia, rovine di ricoveri, serbatoi d’acqua, piattaforme d’arrivo di teleferiche, rive per gli scoli, carreggiate e  pavimentazione sconnesse per il passaggio di carriaggi. E’ ciò che rimane dell’ imponente apparato scenico di una ingegneria umana ora dismessa, per la ribalta di una tragedia, ora lontana, recitata sulla prima linea delle  trincee da comparse spesso dimenticate. Tocca a noi oggi, nei panni degli escursionisti distratti, ripercorrere questi luoghi, nel silenzio di una giornata uggiosa, bagnata di pioggia e avvolta nella nebbia di nuvole basse, in un’atmosfera di sospensione e di isolamento. Sono passi diversi i nostri, lontani da quelli inquieti che salivano al fronte cento anni fa. Al massimo infastiditi dalle gocce che bagnano i calzini, che s’infiltrano tra gli strati sempre più tecnici dei nostri indumenti e che scivolano via sulle protezioni degli zaini senza toccare i ricambi ben custoditi. Sono passi che sperano presto di trovare il tepore di un rifugio e di dimenticare il ricordo di una escursione non del tutto riuscita.
Sono altri i passi che ci seguono silenziosi. Sono i passi dei camosci che fanno capolino tra le rocce e la nebbia. Le loro sagome cornute compaiono sopra le nostre teste e ci osservano incuriosite dal sicuro riparo di un dirupo inaccessibile, dove cercano i prossimi rifugi all’inverno che si avvicina. Capita di scorgere le tracce del loro casuale passaggio sulla strada di arroccamento, negli anfratti delle trincee, nelle grotte abbandonate ma sono indifferenti alla storia. Seguono altre piste, imprevedibili e sconosciute all’uomo. Sono quelle del cibo, della separatezza tra maschi e femmine, della contesa del branco, della riproduzione. Sarà per questo che a loro è concesso frequentare i luoghi con innocenza. Qualcuno però scambia l’innocenza con il selvatico e il selvatico con l’autentico, ma gli animali seguono altri percorsi e non conoscono paesaggi. 

La foto "Trincee a Monte Fior"  è di Paola De Petri tratta dalla mostra To Face

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