Questo
pensiero ti coglie come un colpo di fucile, quando arrivi sul crinale tra le
cime del Monte Boccaor e del Monte Meatte, salendo dalla Valle di San
Liberale, lungo il sentiero CAI 153. Un colpo solo, che rimbomba tra le
nuvole basse, nell’aria umida densa di pioggia
e ti tasti per sentire se ha colpito nel segno.
Ti guardi intorno smarrito perché non c’è
orizzonte o giro di monti con cui orientarti. Sul crinale, tra la nebbia, segui
il filo dei passi e il sentiero, senza quasi che te ne accorgi, s’infila in una trincea della Grande Guerra che ti accoglie
e ti avvolge: una parete di terra e sassi che arrivano al petto. Abbassi lo
sguardo e vedi il fango che imbratta gli scarponi da escursionismo e ne immagini altri chiodati e lerci di
escrementi, vomito e sangue che
ristagnano nauseati piuttosto che uscire allo scoperto. Alzi lo sguardo e segui
la lunga ferita scura che corre sul cotico erboso, scavata seguendo il profilo
del crinale, ad un passo dal dirupo, come la ruga profonda su un volto smagrito.
La
natura ha fatto il suo dovere, dopo quello crudele dell’uomo: ha riconquistato
il terreno perduto; è tornata a colonizzare gli spazi abbandonati dalla guerra e dalla violenza estrema; ha
accompagnato la forza vitale della
rimozione; ha assecondato i tentativi di
elaborazione del lutto. Ha sommato trasformazione a trasformazione, restituendoci
l’inedito paesaggio di una decomposta fiera che, al netto del dare
e dell’avere del tempo, ha perso comunque irrimediabilmente la sua innocenza.
Nei
paesaggi della guerra e in quelli della memoria della guerra, non c’è innocenza.
Forse non esistono paesaggi innocenti. Forse l’innocenza del paesaggio è un
ossimoro. Qualcuno cerca l’innocenza ad oriente, nei paesaggi primordiali del mito
e delle origini oppure, come diceva Thoureau
, a occidente, nella frontiera o in quello che ne resta.
Se un
luogo, però, ha perso l’innocenza allora
vuol dire che qualcuno è colpevole, che qualcuno porta la responsabilità di ciò
che è sotto i nostri occhi. Forse per questo in ogni paesaggio è insita la traccia
di una colpa, la premessa e la promessa di una storia, la prova di un delitto,
l’ombra di un mistero. Non è forse quello che ci dice la cronaca tragica di queste giornate di novembre? Forse è
sbagliato attribuire ai luoghi sentimenti, virtù o vizi umani, ma se non fosse
così non sarebbe paesaggio. Verrebbe meno quel tratto di carattere, quell’identità,
quel geniusloci, che fa del paesaggio un precipitato di tutte le relazioni tra
uomo e natura che si concentrano in un luogo
determinato.
Ma torniamo
con i piedi per terra. Siamo saliti per 900 metri di dislivello per un lungo
sentiero a stretti tornanti che, partito in bosco, ha raggiunto il crinale tra
spoglie pareti a strapiombo. E’ diventato strada di arroccamento fatta di
gallerie, rifugi scavati nella roccia, rovine di ricoveri, serbatoi d’acqua,
piattaforme d’arrivo di teleferiche, rive per gli scoli, carreggiate e pavimentazione sconnesse per il passaggio di
carriaggi. E’ ciò che rimane dell’ imponente apparato scenico di una ingegneria
umana ora dismessa, per la ribalta di una tragedia, ora lontana, recitata sulla
prima linea delle trincee da comparse spesso
dimenticate. Tocca a noi oggi, nei panni degli escursionisti distratti,
ripercorrere questi luoghi, nel silenzio di una giornata uggiosa, bagnata di
pioggia e avvolta nella nebbia di nuvole basse, in un’atmosfera di sospensione
e di isolamento. Sono passi diversi i nostri, lontani da quelli inquieti che
salivano al fronte cento anni fa. Al massimo infastiditi dalle gocce che bagnano
i calzini, che s’infiltrano tra gli strati sempre più tecnici dei nostri
indumenti e che scivolano via sulle protezioni degli zaini senza toccare i
ricambi ben custoditi. Sono passi che sperano presto di trovare il tepore di un
rifugio e di dimenticare il ricordo di una escursione non del tutto riuscita.
Sono
altri i passi che ci seguono silenziosi. Sono i passi dei camosci che fanno
capolino tra le rocce e la nebbia. Le loro sagome cornute compaiono sopra le
nostre teste e ci osservano incuriosite dal sicuro riparo di un dirupo inaccessibile,
dove cercano i prossimi rifugi all’inverno che si avvicina. Capita di scorgere le
tracce del loro casuale passaggio sulla strada di arroccamento, negli anfratti
delle trincee, nelle grotte abbandonate ma sono indifferenti alla storia. Seguono
altre piste, imprevedibili e sconosciute all’uomo. Sono quelle del cibo, della
separatezza tra maschi e femmine, della contesa del branco, della riproduzione.
Sarà per questo che a loro è concesso frequentare i luoghi con innocenza. Qualcuno
però scambia l’innocenza con il selvatico e il selvatico con l’autentico, ma gli
animali seguono altri percorsi e non conoscono paesaggi.
La foto "Trincee a Monte Fior" è di Paola De Petri tratta dalla mostra To Face
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