"Dove si trova Barbiana?" |
Così le coordinate geografiche identificano in
maniera inequivocabile Barbiana
sulla mappa. Ma la precisione non basta a definire un luogo e il termine luogo
non si limita alle definizioni che danno i dizionari. Un luogo come Barbiana non sarebbe tale se
non fosse per la vita, la memoria e la storia di cui sono impregnati la terra e
i sassi, le fronde del bosco, i mattoni della chiesa, le cortecce dei cipressi,
le foglie della vite pensile, il muretto del cimitero, la piscinetta di
montagna, il legno del tavolaccio, i cartelloni ingialliti alle pareti, l’astrolabio
fatto a mano, il tornio consunto nella sacrestia. E tante altre cose potrebbero
raccontare questo luogo, ma per farlo occorre l’uomo e non solo Don Lorenzo
Milani, che ha fatto di questo angolo di Appennino toscano un luogo universale, ma anche i suoi
ragazzi che lo hanno animato e trasformato e dopo di loro le migliaia di
persone che continuano a salire quassù per respirare l’aria di un pensiero
limpido e intransigente, per provare a vivere meglio.
Chi visse prima in queste povere contrade tra il Monte Giovi e il Monte Sassi, subì le guerre civili di epoca romana, le lotte tra guelfi e ghibellini, l’indifferenza di Firenze prima e la sua decadenza poi, la povertà e le carestie, fino alla decimazione della sua gioventù tra la Grande Guerra e i massacri nazifascisti.
Chi visse prima in queste povere contrade tra il Monte Giovi e il Monte Sassi, subì le guerre civili di epoca romana, le lotte tra guelfi e ghibellini, l’indifferenza di Firenze prima e la sua decadenza poi, la povertà e le carestie, fino alla decimazione della sua gioventù tra la Grande Guerra e i massacri nazifascisti.
Dodici ore al giorno di scuola per trecentosessantacinque
giorni all’anno non potevano quindi essere peggio di questo passato e di una
infanzia da vinti, a “spalare merda nelle stalle”, dice Michele Gesualdi, uno dei ragazzi di Barbiana. Eppure non era
ammesso sprecare tempo senza imparare qualcosa e gli ospiti illustri come La Pira o Ingrao, quando venivano alla Scuola, andavano “spellati” di
domande, come dice il Buti, un altro dei ragazzi.
L’accesso al sapere cominciava da un ponticello su un fosso, ottenuto con uno sciopero
davanti al Municipio di Vicchio, nel giorno di mercato, per permettere a Lucianino di non impiegare tutti i
giorni due ore per andare a scuola e altrettante per tornare a casa. Si
combattevano le paure, a cominciare da quella atavica dell’acqua per i ragazzi
di montagna, costruendo una piscinetta
in cemento con le proprie mani e con un maestro che insegnava a nuotare senza
togliersi mai la tonaca. In quella pieve chiusa tra i monti, il mondo intero si
apriva tutti i pomeriggi con la lettura e la discussione dei quotidiani e per i
più grandi vi erano già le borse di studio per andare a lavorare all’estero,
con il solo impegno di scrivere ogni giorno una lettera a chi, più piccolo, era
rimasto a Barbiana. Gli insegnanti erano gli studenti stessi, i più grandi per
i più piccoli. Oppure i contadini e i falegnami, come Nanni Banchi che da giovane marxista leninista degli anni ’60,
mandò toscanamente a “fanculo” il Priore che cercava di convincerlo ad entrare
nella scuola, salvo scoprire, dopo la sua morte, l’errore commesso, il vuoto
che si era aperto e dedicare il resto della sua vita alla memoria di quell’uomo
e dei suoi ragazzi.
Don Milani era un uomo scomodo, un disobbediente civile. La Curia l'aveva mandato a Barbiana da Calenzano per punizione, perché aveva organizzato una scuola popolare aperta anche ai figli poveri dei comunisti. La prima cosa che fece quando arrivò fu comprare il pezzo di terra in cui fu seppellito e aprire una scuola, dedicando il resto della sua vita alle 42 anime di Barbiana. Per convincere i genitori a lasciare venire i figli a scuola metteva in atto scioperi della fame sulle porte di casa. Insegnò per tredici anni in quella sacrestia e poi con l’aiuto dei suoi ragazzi scrisse Lettera ad una professoressa, contestando una scuola ufficiale che non sapeva aderire ai bisogni degli studenti, in anticipo con le proteste del ’68. Ai sacrestani militari che consideravano “un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà” rispose con una lettera scritta ancora una volta insieme con i suoi ragazzi in cui diceva: “Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. Una lettera che gli valse una condanna per apologia di reato, che non scontò per la morte prematura, lasciando a noi una lezione severa ne l’Obbedienza non è più una virtù.
Don Milani era un uomo scomodo, un disobbediente civile. La Curia l'aveva mandato a Barbiana da Calenzano per punizione, perché aveva organizzato una scuola popolare aperta anche ai figli poveri dei comunisti. La prima cosa che fece quando arrivò fu comprare il pezzo di terra in cui fu seppellito e aprire una scuola, dedicando il resto della sua vita alle 42 anime di Barbiana. Per convincere i genitori a lasciare venire i figli a scuola metteva in atto scioperi della fame sulle porte di casa. Insegnò per tredici anni in quella sacrestia e poi con l’aiuto dei suoi ragazzi scrisse Lettera ad una professoressa, contestando una scuola ufficiale che non sapeva aderire ai bisogni degli studenti, in anticipo con le proteste del ’68. Ai sacrestani militari che consideravano “un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà” rispose con una lettera scritta ancora una volta insieme con i suoi ragazzi in cui diceva: “Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. Una lettera che gli valse una condanna per apologia di reato, che non scontò per la morte prematura, lasciando a noi una lezione severa ne l’Obbedienza non è più una virtù.
Don Lorenzo era un maestro. Un passo avanti e uno di fianco ad
ognuno dei suoi ragazzi . Nel suo
ultimo scritto prima di morire disse loro: “Ho voluto più bene a voi che a Dio,
ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto
tutto al suo conto.” Un passo avanti a noi che siamo saliti a piedi da Vicchio,
in giornate difficili per la nostra fragile democrazia, per leggere lungo il
Sentiero della Costituzione queste parole: “Sortirne insieme è la politica.
Sortirne da soli è l’avarizia”. Un passo insieme a noi che siamo ripartiti per Monte Sole, perché si è fatto
seppellire con i paramenti del sacerdote, ma con gli scarponi da montagna
del camminatore.
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