“Cosa
ci fai qui?”
chiedo sorpreso. “Oggi ho bisogno di ampi
orizzonti” risponde la collega.
Ci incontriamo a Medelana, dove il sentiero CAI
140 incontra l’asfalto. Io sono a metà del percorso, lei, con un’amica, sta
per cominciare il suo cammino. Ci scambiamo alcune informazioni sui sentieri e
ci promettiamo di rivederci nei giorni successivi per raccontarci le
impressioni sulle nostre camminate. Quel bisogno di ampi orizzonti resta però
nell’aria e nella mente. Sarà che la dose quotidiana di orizzonte l’ho già
respirata e l’ho ancora nei polmoni. Sono partito da Lama di Reno e il sentiero
è salito ripido in un bosco di faggi e poi progressivamente si è allargato in
carrareccia da Monazzo a Collina. Ha accarezzato le curve dei
pendii fino ad aprirsi, tra Calvane
e Monte Terranera, in ampi squarci
panoramici su S. Luca e la pianura. Qui il passo si è disteso e il respiro si è
liberato, di fronte a tanta ampiezza di veduta, in una sensazione di sollievo.
Da dove nasce questo bisogno di
orizzonte? Questa sensazione di sollievo? La risposta è ovvia: da una mancanza di
orizzonte, da un respiro ansioso, da un passo contratto che spesso descrive la
nostra quotidianità.
Misuriamo lo spazio delle quattro mura dell’ufficio. Presidiamo il perimetro di azioni sempre più costrette tra compatibilità organizzative e sostenibilità economiche. Compulsiamo l’agenda elettronica nel tentativo di incastrare scadenze di lavoro con bisogni privati, nel rischio latente di far precipitare il tutto in default esistenziali. Le pareti domestiche, nelle ore serali, sono un rifugio per la stanchezza di scalate professionali e gli affetti riservano carezze a corpi e menti indolenzite, mentre fuori dalla finestra le montagne hanno il profilo squadrato del condominio di fronte e il cielo è un trapezio scaleno tra tetti.
Eppure le nostre vite si muovono
frenetiche nei territori sconfinati del web. Ogni giorno lasciamo esili tracce rinchiuse
nei pollici dei device, come briciole di Pollicino spazzate dai venti di scroll.
“Guardare
dentro un iPad o uno smartphone corrisponde a un’esperienza del tutto diversa: il fuoco della
visione non si apre, si chiude in un angolo sempre più stretto. Non a caso è un
guardare privato, mai comunitario.” E ancora “ Di tutto quello che si può documentare riguardo alla propria
presenza in un certo luogo, il selfie sceglie di lasciar perdere il mondo
circostante per concentrarsi sulla faccia del soggetto.” E’ il regista
Davide Ferrario che ci ammonisce che
non sappiamo più guardare il mondo,
non riusciamo più ad allargare lo sguardo oltre noi stessi, al contesto che ci
circonda. Anche l’esperienza virtuale tradisce quindi un bisogno di orizzonte.
Uscire di casa all’alba, lasciare la
città, andare in ambiente, misurarsi con la fatica del corpo e le insicurezze
dalla mente, confrontarsi con la dimensione selvatica della natura, raggiungere
uno spazio aperto, cercare di orientarsi in un territorio con l’aiuto della
mappa e della bussola, risponde a questo bisogno d’orizzonte. Fare
escursionismo consente di ridare profondità al respiro, riconquistare ampiezza allo
sguardo e restituire circolarità al pensiero Di fronte alla linea dell’orizzonte
possiamo provare a fare l’esperienza di definire la nostra collocazione nello
spazio e nel tempo.
La linea dell’orizzonte segna senza
dubbio un confine e un limite, così come lo sono le mura di un ufficio, di una
casa, di una città o i pollici di uno smartphone, entro cui definiamo lo spazio
fisico e virtuale delle nostre relazioni sociali. L’orizzonte però ha un valore
duplice e ambiguo, segna il confine e al tempo stesso il punto di unione tra
due archetipi per l’uomo: la terra e il cielo, la dimensione naturale e quella
divina, il finito e l’infinito. E’ in direzione di quella linea tra terra e
cielo, tra natura e divino, tra finito e infinito che l’uomo può camminare sul
delicato equilibrio della sua posizione eretta, nell’angolo prospettico di uno
sguardo aperto e attento, con il patrimonio consapevole delle sue percezioni e provar
di trovare un senso al suo stare nel mondo. Per questo l’orizzonte è uno dei
tratti essenziali dei paesaggi umani.
Infine la linea dell’orizzonte è ambigua perché
non è sempre la stessa, muta il suo profilo in relazione al cammino dell’uomo.
Rimane sempre presente e mai raggiungibile. Per questo l’orizzonte è anche una
metafora, come diceva lo scrittore Eduardo Galeano in Parole in cammino, pensando all’utopia: “Lei
è all’orizzonte. […] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi.
Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per
quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio
a questo: a camminare”. E Maurizio Maggiani di rimando chiosava: ”Ecco, l’utopia è lo strumento che hai per
camminare, la memoria è lo strumento che hai per camminare in una direzione che
scegli, a ragion veduta, perché sai e ricordi da dove vieni, da chi vieni”.
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