Capita così tra Calanchi
e Crinali, di riscoprire alla Pieve
le lontane tracce di un castello in una lapide del 1115 sul muro della Chiesa di
S. Giorgio. Una chiesa dalle placide forme settecentesche ci segna il passo in questa borgata ormai semi abbandonata di Savigno. Resta difficile pensare oggi
che le sommità arrotondate di queste colline, solcate dalla vite e dal calanco,
furono segnate per secoli da un sistema fortificato di castelli e case torri
lungo i tracciati medievali della Piccola
Cassia. In queste terre ancora di confine tra Bologna e Modena, nel più
ampio campo di battaglia tra Impero e Papato, si combattevano cruente guerre di
famiglia per il mantenimento o la conquista di possedimenti, anime e potere:
storia particulare nella storia
globale. Nelle vite dei “lupi rapaci” dei Cuzzano, nell’arco di tre
generazioni, si trovano avventure, battaglie, ambizione, intrigo, tradimento,
ferocia e per Guido da Cuzzano addirittura la decapitazione in piazza a
Bologna, nel 1291, dopo essere stato catturato proprio alla Pieve. E’ forse
questa la storia che ci vuole suggerire il vecchio cipresso secco, bruciato e
scapezzato davanti alla Chiesa?
Oppure la storia di Bartolomea, detta Bona, una ragazza di queste contrade dalla lingua sciolta e dalla battuta secca, arrivata da Roffeno dove aveva imparato a vivere in eremitaggio secondo la regola degli Apostolici e gli insegnamenti di Zaccaria da S.Agata. “Dio è libertà” ripeteva alla gente incredula del luogo, contadini, servi di feudatari come i Cuzzano , anime delle pievi. Dava scandalo negando la verginità di Maria e i suoi miracoli, ma dava scandalo anche il fatto che non credesse che la verginità fosse una via per la salvezza e la perfezione. Per questo viveva in comunione con altre donne e uomini. Per questo fu costretta a farsi riconoscere per strada come peccatrice penitente con una croce color zafferano cucita sulle vesti . La crocesignatura era il primo avvertimento che i tribunali religiosi imponevano a chi era in odore di eresia. Di lei sappiamo solo ciò che vollero farci conoscere i suoi giudici. Il 1307 fu l’anno in cui la Chiesa chiuse i conti con gli Apostolici dolciniani in tutto il nord e per Bartolomea quell’anno terminò prima, il 21 novembre, nella piazza del mercato di Bologna, al rogo.
Oppure la storia di Bartolomea, detta Bona, una ragazza di queste contrade dalla lingua sciolta e dalla battuta secca, arrivata da Roffeno dove aveva imparato a vivere in eremitaggio secondo la regola degli Apostolici e gli insegnamenti di Zaccaria da S.Agata. “Dio è libertà” ripeteva alla gente incredula del luogo, contadini, servi di feudatari come i Cuzzano , anime delle pievi. Dava scandalo negando la verginità di Maria e i suoi miracoli, ma dava scandalo anche il fatto che non credesse che la verginità fosse una via per la salvezza e la perfezione. Per questo viveva in comunione con altre donne e uomini. Per questo fu costretta a farsi riconoscere per strada come peccatrice penitente con una croce color zafferano cucita sulle vesti . La crocesignatura era il primo avvertimento che i tribunali religiosi imponevano a chi era in odore di eresia. Di lei sappiamo solo ciò che vollero farci conoscere i suoi giudici. Il 1307 fu l’anno in cui la Chiesa chiuse i conti con gli Apostolici dolciniani in tutto il nord e per Bartolomea quell’anno terminò prima, il 21 novembre, nella piazza del mercato di Bologna, al rogo.
Le storie arrivano in un luogo anche attraverso il nostro
camminare, seguono il ritmo regolare del passo e quello irregolare delle
conversazioni e delle confidenze lungo il percorso. Lasciano impronte più
leggere sul territorio ma non meno in noi stessi.
Una di queste storie ti può cogliere in una mattina di
brume autunnali come questa, dove il sentiero 219 lambisce i calanchi di Monte
Specchio senza lasciarteli vedere . Mentre passi tra le ginestre e spezzi le
esili trame di ragnatele che stillano nebbia, senti per la prima volta, dopo il
caldo dei mesi estivi, l’umidità farsi strada
sotto i vestiti. E senti anche l’italiano che inciampa di un giovane
rumeno che lavora nei petroli a Ravenna e che si è alzato all’alba per questa
escursione. Camminando uno dietro l’altro senza guardarsi le parole scorrono
più facile e sciolte. Dice che ama la montagna, anche quando è collina. Dice che sono altre le montagne in Romania,
più alte e rocciose di questo Appennino, ma è contento lo stesso perché sta
all’aria aperta e conosce nuovi luoghi. E’ appena arrivato dalla Malesia dove è
stato per tre anni, sempre nei petroli, e ha camminato sulle montagne dell’altro
emisfero e nelle foreste equatoriali, dove le piogge monsoniche occupano mesi e
ti bagnano insieme al sudore. Provi a misurare quanto è lontana la Malesia dal Monte Specchio e provi ad avvicinarla nei
ricordi di letture giovanili, fatte di avventure, di tigri e pirati che però
non hanno mai lasciato le rive del Po. Alto e sottile nella sua magrezza il
ragazzo si muove sicuro sul fondo argilloso tenendosi con una mano a un bastone
e con l’altra a una fotocamera con cui ferma anche le nuvole basse che ci
avvolgono. E pensi che nei piedi e nei panni di quel giovane rumeno l’umidità
boreale dell’Appennino e quella australe della foresta malese si sono per un
attimo toccate e insieme confuse, perché il suo orizzonte è il mondo.
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