martedì 14 maggio 2013

Chi siamo quando ci diamo alla macchia?

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Taglio del bosco in località Porticciola
Scendendo dal convento di Monte Senario si prende un tratto della Via degli Dei, tenendo sulla sinistra Bivigliano. E’ qui che all’improvviso i nostri accompagnatori ci invitano a camminare in silenzio, nell’imboccare un sentiero tortuoso e un po’ sconnesso, in una macchia di carpini e faggi che ancora stenta a ritrovare i colori della primavera, dopo i guasti dell’inverno. Si cammina per qualche minuto e il rumore del passo sulle foglie accartocciate e sugli sterpi si fa più netto e secco e il tiepido sole del mezzogiorno riesce a malapena ad ammorbidire il senso di ruvido abbandono del luogo. “In questo punto nella sera del 29.8.1944 fu barbaramente ucciso dai tedeschi Guglielmo Aglietti di anni 26”. Così si legge a fatica su un cippo di pietra che spunta dalla terra, simile ad un tronco d’albero schiantato, coperto di muschi e licheni, circondato da un cordone di rami secchi.
Al posto di questa pietra, sessantanove anni fa, nel sottobosco ombroso d’estate, giaceva un giovane corpo inerte, scomposto e riverso a terra sulla curva del sentiero, nel mezzo di un leggero pendio. L’eco dei colpi si è appena fermato, il rumore dei passi colpevoli dilegua velocemente e la macchia rimane per un attimo sospesa in silenzio, prima che i suoni sommessi della natura riprendano il sopravvento insieme con l’oscurità della sera. I compagni di viaggio si aggirano assorti intorno a questo ricordo di pietra, quasi non riuscendo a capacitarsi che possa essere rimasto abbandonato, con l’intenzione trattenuta e incerta di accudire questo luogo, di ricomporre quel corpo, abituati come siamo al rispettoso decoro dei monumenti alla memoria, dove al ricordo è stato sottratta la violenza dei fatti. Una voce rompe il silenzio e legge le Rime di rabbia di uno scongiuro contro il nazismo futuro, un monito severo, in forma di filastrocca.
A poche centinaia di metri da quel cippo partigiano, un’intera macchia di faggi è stata di recente abbattuta per mano dell’uomo e i tronchi, fatti a pezzi, giacciono a terra in attesa di diventare legna da ardere. Da quel grigio cimitero ligneo abbiamo cercato rifugio in una macchia di cedri del Libano che però nascondeva, pietosa, la caduta, per cause naturali, della più grande delle sue creature. Intorno a quel grande cedro del Libano ci siamo stretti come intorno al corpo di Guglielmo Aglietti.Tanti giovani si sono dati alla macchia, in quel lontano 1943, per sfuggire alla leva obbligatoria fascista, per convinzione politica, per spirito d’avventura, per sfuggire alla legge. Hanno rinunciato alle loro identità anagrafiche per assumerne una nuova e diversa, in un nome di battaglia. Hanno seguito le orme di altri nei secoli passati: ladri, briganti, ribelli, reietti o malati di mente. Dare sé stessi alla macchia significa affidarsi e consegnarsi con fiducia alla dimensione selvatica del bosco, ad un mondo che nella sua durezza, riserva però accoglienza e protezione. Un mondo altro e diverso da quello da cui si fugge, al cui ordine sociale si è legati a partire da quel nome e cognome che è la propria storia. Nella macchia invece si perde proprio quella identità sociale e se ne può inventare una nuova, perché la macchia ha altre leggi e un’altra storia. Il nome di battaglia di un partigiano non è dunque solo un nascondiglio o una maschera, ma un’altra identità, un’altra persona, un’altra vita. Il Guglielmo Aglietti della lapide è quello conosciuto all’anagrafe, restituito ai suoi cari, ai libri e alla ricerca storica, ma altro da quel corpo inerte che ha finito la sua vita alla macchia in un bosco di carpini e di faggi, in una sera d’agosto del 1944. E di quella vita selvatica non sapremo mai nulla.  
Perché ancora oggi continuiamo a darci alla macchia? Non sfuggiamo più ad una guerra o a leggi ingiuste, eppure sentiamo il bisogno, anche solo per un fine settimana, per alcuni giorni, di renderci invisibili ad un ordine sociale che evidentemente ci va sempre più stretto, consegnandoci ad una vita selvatica. Tra le ombre di un bosco, lungo il tracciato impervio di un sentiero, nelle faticose giornate di cammino tra Barbiana e Monte Sole, ci abbandoniamo ad un’altra vita per la quale valgono a malapena i nostri nomi, in cui i cognomi sono ignorati e dimenticate le ragioni sociali, che restano a casa, come abiti sgualciti, lasciati sulla sedia dopo una giornata di duro lavoro. Continuiamo a dare noi stessi alla macchia, ma non siamo briganti, non siamo delinquenti, non siamo malati di mente e non siamo nemmeno partigiani. Chi siamo dunque quando ci diamo alla macchia?
La fotografia è di Cristina Panicali

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