lunedì 6 maggio 2013

Quello che la pioggia porta con sé

Nel capanno partigiano
Durante il cammino da Barbiana a Monte Sole la pioggia si è fatta sentire dalle previsioni del tempo. Si è affacciata minacciosa fin dal mattino sulle pagine dei giornali prima della partenza, poi interrogando il web alla ricerca di conferme, infine scommettendo sui dolori articolari di qualcuno o scherzando sui presunti poteri di qualcun’altro. La pioggia è considerata una minaccia per il camminatore, la guastatrice di una escursione, la turbatrice del percorso. Una percezione che si è rafforzata nel corso del giorno quando abbiamo cominciato ad osservare nel cielo, lungo il crinale della Futa, i movimenti delle nuvole sospinte dalle correnti sopra Monte Gazzaro, la loro conformazione, la densità, le diverse scale di grigio che hanno chiuso progressivamente ogni squarcio di azzurro. Abbiamo scrutato il cielo come aùguri alla ricerca di presagi futuri e i nostri bravi accompagnatori, custodi del nostro cammino, avevano lo sguardo un po’ preoccupato e perplesso.
Eppure quando è arrivata la pioggia, tra Marcoiano e Castellana, è stata accolta con trepidazione, come una prova a cui ci eravamo preparati ed ora ci dovevamo sottoporre, come parte ineliminabile del viaggio. Abbiamo tirato fuori dagli  zaini le mantelle o gli ombrelli, i teli impermeabili. Qualcuno si è accorto di non essere bene attrezzato e ci siamo aiutati a vicenda. Abbiamo verificato che le macchine fotografiche, le apparecchiature e gli indumenti di ricambio fossero protetti e all'asciutto e poi, fatto tutto ciò, abbiamo ripreso a camminare, mentre la pioggia ha cominciato a scendere prima leggera e poi sempre più copiosa e regolare. E’ così che la pioggia, tanto temuta durante il giorno, è diventata compagna del nostro cammino al punto che dopo un po’, complice il calore del corpo, è come se fossimo diventati tutt’uno con quel paesaggio grondante, stillanti gocce come la corteccia di un carpino, la sporgenza di una roccia, lo spiovente di un tetto, il fondo sassoso e sempre più melmoso del sentiero. Ad un certo punto, tra le fronde di un bosco di faggi, è venuto naturale scostare i lembi dei cappucci e delle mantelle, chiudere gli ombrelli e sentire la pioggia direttamente sulla pelle calda e percepirla non come fastidio, ma come una dolce sensazione di appartenenza a ciò che ci circondava. Qualche goccia è entrata sotto i vestiti, si è mescolata al sudore e ha provocato qualche brivido. Gli abiti si sono attaccati alla pelle e li avremmo voluti togliere pensando ad un bagno caldo, ma è bastato riprendere il cammino e il fastidio è passato perché il cammino ci scalda quando siamo nella pioggia. Quando si è nella pioggia il corpo sente in modo diverso forse perché è la pelle a sentire con tutti i pori. Quando siamo nella pioggia ci sentiamo ancora di più allo scoperto. In quel bosco gocciolante i volti bagnati dei compagni di viaggio si rivelavano in una luce diversa: sembravano più nitidi e veri.
Siamo passati davanti a un bunker tedesco dell’ultima guerra, parte di quell’imponente apparato difensivo conosciuto come LineaGotica; una scritta vergata sul cemento armato diceva: “Unsere gefalleren 1944”, i nostri caduti del 1944. Poco distante abbiamo trovato rifugio in un angusto capanno partigiano sopra a Panna, dove al posto del camino una grande pietra mostrava scolpite una falce e un martello. Ci siamo stretti in dodici, al buio e in silenzio, nel comune ricordo di altre giornate di pioggia, fatte di violenza e di speranza, vissute da altri uomini e donne e ci è sembrato di vederli più nitidi e veri. Questo è quello che la pioggia porta con sé.

La fotografia è di Cristina Panicali

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