martedì 21 ottobre 2014

Camminando intorno al Monte Pisanino

Monte Pisanino
Ci sono storie che fanno un paesaggio. Così almeno capita camminando sulle Apuane. Appena usciti dall’abitato di Vagli di Sopra, il sentiero 177 sale ripido al cospetto della Roccandagia, fino al verde prativo di Campocatino, seminato dalle vecchie e stentate casupole dei pastori, oggi ristrutturate per sobri soggiorni estivi, per poi tuffarsi in un bosco di faggi inquieti, tra rocce aspre. Rimanendo in costa e curvando verso SO, si esce al sole di questo ottobre estivo e gli occhi vengono colpiti da un’abbagliante luce bianca, tra il folto degli alberi, tanto che le mani cercano appoggio al ripido pendio del monte per tenere l’equilibrio. Sotto di noi si aprono le voragini squadrate delle Cave Campaccio e Scagli, Freddia e Bacalario percorse dalle nervose strade bianche del marmo. Si cerca ristoro da tanto chiarore volgendosi al cielo sereno dove in alto spicca la perfetta forma piramidale del Monte Pisanino. Una montagna come quelle che si disegnavano da bambini sui quaderni a quadretti, con due tratti netti che si congiungono in un punto a formare un angolo acuto, come la punta di quegli aeroplani di carta che solcavano, per un breve tratto, l’aria sospesa dei pomeriggi di gioco. Sembra di poterla toccare con la mano questa montagna tanto la sua imponenza la rende prossima. Lo sguardo sembra poter colmare in un balzo la distanza, mentre sono almeno due i chilometri che ci separano, e non solo quelli.
La parete nuda e ripida del Pisanino resta lì a guardarci indifferente mentre facciamo un esercizio di disarrampicata, lungo un breve tratto di placca grigia. Poca cosa rispetto a tante prestazioni atletiche e a certe imprese alpinistiche eppure, aggrappati a questa roccia, per quanti sforzi  facciamo per aderirvi, si rimane colpiti dalla estraneità della materia alla fatica come all’abilità umana, all’errore come al pericolo. Per quanto la montagna agiti la mente e il corpo dell’uomo con il pensiero di dominarla, di scalarne la cima, di montarle in groppa come inquieta cavalcatura, di limitare il rischio con dispositivi di sicurezza, di dissipare gli effetti della caduta nel vuoto, rimane estranea e  distante ben più di quei due chilometri.
Giunti a sera al Rifugio Orto di Donna, il Pisanino è ancora lì e mostra il suo versante nord, diverso, meno acuto, più vasto ma sempre impervio, come una  tavola inclinata di ruvido marmo, prodotta dalla tagliata maldestra di un antico cavatore romano, scivolata di mano prima in bosco e poi sui prati stentati di Orto di Donna. 
Il rifugio è gestito da una giovane donna che parla una lingua decisa e schietta che trascorre gli inverni restaurando gli antichi arredi lignei delle chiese della valle, per conto della Sovrintendenza alle Belle Arti, mentre da giugno a ottobre tiene aperto tutti i giorni questo rifugio ristrutturato da poco con fondi europei, accogliente ma che, come dice lei, mostra già qualche difetto. Nel tempo libero accudisce i figli, corre in montagna, gareggia in sci di fondo, mentre il marito fa la guida alpina e sfida gli ottomila.
C’è un tratto di tenacia nelle donne di queste parti, la stessa di questa roccia che tormenta il passo ma restituisce un liscio marmo pregiato. La stessa che racconta Maurizio Maggiani in Meccanica Celeste, il romanzo di queste montagne, con la ‘Nita, la Duse, la Santarellina. La stessa tenacia che mette la figlia di un re nel coltivare pazientemente le piante medicinali del suo orto di donna per curare un giovane guerriero pisano ferito, salito dalla costa per scampare alla battaglia ma per morire del freddo inverno di queste valli. La stessa tenacia che la rende inconsolabile per l’amore perduto, che la porta a versare lacrime su lacrime, stagione dopo stagione, fino a farne montagna di ghiaccio d’inverno e di roccia d’estate: una montagna di dolore chiamata Pisanino. La storia poi racconta che tanta tenacia
Il profilo dell'Omo Morto
risvegliò il tardivo intervento di divinità distratte, che cercarono di lenire il dolore della donna provocando un grande terremoto che sconvolse i crinali disegnando l’Omo Morto, tra le cime della Pania Secca e la Pania della Croce, perché la giovane potesse riconoscere, dalla vetta del Pisanino, il profilo del suo amato addormentato e trovare così consolazione.
Altre storie e altre leggende raccontano in modo diverso l’origine dell’Omo Morto ma la tenacia dell’amore è la medesima e medesima l’idea di una storia che si fa montagna, crinale e paesaggio. Storie e leggende spesso si mescolano tra loro, si stratificano nel tempo per raccontare l’origine dei nomi dei luoghi. 
“Dare un nome alle cose è la grande e seria consolazione concessa agli umani” diceva Elias Canetti. Mentre per  Thomas Mann “questo è il privilegio dell’uomo sulla terra, di dare un nome alle cose e inserirle in un sistema. Ed esse chinano per così dire gli occhi di fronte a lui quando le chiama. Nome è potenza”.
 Dare un nome, dunque,  è consolazione o potenza? I toponimi sono uno dei modi attraverso il quale l’uomo si è impossessato del mondo, dando un’organizzazione, una forma e un senso al proprio abitare i luoghi, fino a farla divenire una sorta di appropriazione indebita nei confronti della natura. Dare un nome alle cose fu uno dei primi doni che Dio diede ad Adamo all’indomani della Creazione e il giorno prima della cacciata dal Paradiso terrestre. Per questo dare un nome ad un luogo è un atto fondativo: il nome è come un certificato di esistenza  in vita per un luogo. Senza un nome un luogo non è tale. Senza una vita umana vissuta, un luogo non è tale e un nome non è nulla. Ci sono luoghi che hanno preso nome dagli uomini che li hanno scoperti o che li hanno abitati, dai lavori che vi si svolgevano o per caratteristiche morfologiche care all’agire umano e per molti altri motivi, ma sempre in un rapporto vivo con la lingua del momento e del luogo stesso. Vi sono anche toponimi di cui si è persa la memoria ma quella parola risuona come una nota famigliare nelle orecchie degli uomini.
Se con un semplice comando da un pc potessimo far emergere su una mappa tutti i nomi scritti in tutte le mappe del mondo, scopriremmo il globo terrestre avvolto in una specie di sfera culturale, in un denso strato di nuvole formato da milioni di nomi in grado di disegnare lo stato di antropizzazione del pianeta: isolati cirri negli ampi spazi vuoti degli oceani, dei deserti e dei poli; densi cumolonembi che scaricano fitti rovesci di parole e lettere sui vecchi continenti dell’Europa e dell’Asia, fino agli stratocumoli più recenti e rarefatti delle Americhe.
Con questa mappa non sarebbe facile ritrovare il Monte Pisanino, intorno a cui abbiamo camminato, e ancora più difficile cercare l’origine del suo nome. Per questo ci serve una storia, la sua storia, così come se la sono raccontata gli uomini nel corso dei tempi e come è giunta a noi. Perché abbiamo bisogno di una storia? Perché ci sono luoghi così selvatici, così impervi e inaccessibili, così inumani che un nome non basta. Solo una storia può consentire all’uomo di dare loro un’ identità accettabile e quindi abitabile; perché la parola che racconta è l’unica che riesce a fare breccia nell’assoluta indifferenza all’uomo di questa roccia grigia, per scavare qualche appiglio in cui cercare appoggio e su cui far leva, con le proprie poche forze, per rendere tanta estraneità almeno tollerabile.
Per questo camminare in montagne come le Apuane a volte è una consolazione più che una prova di potenza.

Nessun commento: