«Una volta un indirizzo stradale era un
codice che si riferiva a un’area della mappa di una città disegnata secondo la
geometria metrica, in cui sono definite le distanze. Con la nuova tecnologia la
distanza scompare. Non si riduce
solamente, come avveniva prima, quando le distanze si accorciavano grazie a un
cavallo o a un aereo. Oggi vengono annullate, e quindi il nostro nuovo
indirizzo è l’indirizzo del telefono cellulare o del computer, che funziona
ovunque ci si trovi e permette di inviare messaggi ovunque sia il destinatario.
In un certo senso non abitiamo più lo stesso spazio dei nostri genitori. Abbiamo cambiato spazio, e questo
cambiamento è fondamentale sotto molti aspetti».
Con
la rivoluzione digitale, quale spazio
abitiamo? Bambini e giovani sono già nativi digitali e il loro luogo di nascita
e di vita, la dimensione preferenziale del loro abitare è sempre più quella digitale,
con una percezione dello spazio che è già altro rispetto alla distrazione e
alla dispersione che caratterizzano le generazioni che stanno affrontando
il digital divide. Siamo oltre la dimensione
dell’essere fuori luogo che determina l’esperienza dello spaesamento, della
dislocazione, dell’a-topia. Siamo nell’e-topia: siamo in un altro spazio che può
prescindere dal corpo, semmai lo re-inventa, reinventando sé stesso.
Anche
per quanto riguarda l’esperienza del paesaggio, la dialettica
indigeno/straniero, insider/outsider è da riconsiderare e da ricollocare in
relazione ad uno spazio che viene sempre meno percepito dai sensi e sempre più
frammentato e reinterpretato dal bit e ricomposto e rappresentato in pixel come
una realtà parallela e a volte più significativa di quella fisica.
Oggi
la tecnologia ci consente, attraverso la georeferenziazione, la possibilità di
sapere sempre dove ci troviamo. In verità non sappiamo dove siamo, semplicemente siamo connessi. Marchiamo
una traccia della nostra presenza e del nostro passaggio su un’immagine raster del luogo in cui siamo,
ma il rapporto con il luogo che abitiamo o che visitiamo è sempre più anonimo. Ci
muoviamo nel mondo tracciando rotte su un immagine elettronica del mondo, mentre
siamo continuamente tracciati sotto un cielo solcato da satelliti e viviamo
nell’illusione che la privacy delle mura domestiche sia l’unico rifugio concesso.
In
questo contesto fare mente locale diventa
così sempre più difficile, perché mentre si annulla la distanza nella
comunicazione tra uomini aumenta a dismisura quella tra uomo e ambiente. Mentre
diminuisce la percezione fisica dei luoghi attraverso la dimensione corporea,
emotiva e riflessiva, aumenta la rappresentazione e la riproduzione digitale del luogo e della nostra presenza. L’ambientamento è un
tempo non produttivo, che possiamo permetterci sempre meno, così come il jet
leg o la vertigine, il disorientamento o
il perdersi. Lo spazio oggi non va sentito, né tanto meno abitato, va prima di tutto
misurato e poi va “fruito” e per questo sono nati i non luoghi, per questo i luoghi si assomigliano in tutte le
latitudini del globo, come capita nelle grandi catene alberghiere. E i luoghi
più sono consumati e più sono brutti e, soprattutto quando sono pubblici, sono
trascurati, svalorizzati, degradati.
Per
questo occorre dare un senso al camminare come forma di riappropriazione dello
spazio, del nostro corpo nello spazio, come un modo concreto di fare mente
locale. La montagna, e il nostro Appenino in particolare, sono tra i luoghi
dove ancora il digital divide non è stato strutturalmente affrontato e
superato. E’ certamente un’occasione di sviluppo perduta, ma fa della montagna
uno spazio marginale dove è ancora possibile fare mente locale. Per questo fare un’escursione in montagna può diventare
l’esperienza di un altro mondo che si chiama natura, che si chiama umanità.
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