mercoledì 15 ottobre 2014

Perdere spazio


«Una volta un indirizzo stradale era un codice che si riferiva a un’area della mappa di una città disegnata secondo la geometria metrica, in cui sono definite le distanze. Con la nuova tecnologia la distanza scompare. Non si riduce solamente, come avveniva prima, quando le distanze si accorciavano grazie a un cavallo o a un aereo. Oggi vengono annullate, e quindi il nostro nuovo indirizzo è l’indirizzo del telefono cellulare o del computer, che funziona ovunque ci si trovi e permette di inviare messaggi ovunque sia il destinatario. In un certo senso non abitiamo più lo stesso spazio dei nostri genitori. Abbiamo cambiato spazio, e questo cambiamento è fondamentale sotto molti aspetti».

Con la rivoluzione digitale, quale spazio abitiamo? Bambini e giovani sono già nativi digitali e il loro luogo di nascita e di vita, la dimensione preferenziale del loro abitare è sempre più quella digitale, con una percezione dello spazio che è già altro rispetto alla distrazione e alla dispersione che caratterizzano le generazioni che stanno affrontando il digital divide. Siamo oltre la dimensione dell’essere fuori luogo che determina l’esperienza dello spaesamento, della dislocazione, dell’a-topia. Siamo nell’e-topia: siamo in un altro spazio che può prescindere dal corpo, semmai lo re-inventa, reinventando sé stesso.
Anche per quanto riguarda l’esperienza del paesaggio, la dialettica indigeno/straniero, insider/outsider è da riconsiderare e da ricollocare in relazione ad uno spazio che viene sempre meno percepito dai sensi e sempre più frammentato e reinterpretato dal bit e ricomposto e rappresentato in pixel come una realtà parallela e a volte più significativa di quella fisica.
Oggi la tecnologia ci consente, attraverso la georeferenziazione, la possibilità di sapere sempre dove ci troviamo. In verità non sappiamo dove siamo, semplicemente siamo connessi. Marchiamo una traccia della nostra presenza e del nostro passaggio su un’immagine raster del luogo in cui siamo, ma il rapporto con il luogo che abitiamo o che visitiamo è sempre più anonimo. Ci muoviamo nel mondo tracciando rotte su un immagine elettronica del mondo, mentre siamo continuamente tracciati sotto un cielo solcato da satelliti e viviamo nell’illusione che la privacy delle mura domestiche sia l’unico rifugio concesso.
In questo contesto fare mente locale diventa così sempre più difficile, perché mentre si annulla la distanza nella comunicazione tra uomini aumenta a dismisura quella tra uomo e ambiente. Mentre diminuisce la percezione fisica dei luoghi attraverso la dimensione corporea, emotiva e riflessiva,  aumenta la rappresentazione e la riproduzione digitale del luogo e della nostra presenza. L’ambientamento è un tempo non produttivo, che possiamo permetterci sempre meno, così come il jet leg o la vertigine,  il disorientamento o il perdersi. Lo spazio oggi non va sentito, né tanto meno abitato, va prima di tutto misurato e poi va “fruito” e per questo sono nati i non luoghi, per questo i luoghi si assomigliano in tutte le latitudini del globo, come capita nelle grandi catene alberghiere. E i luoghi più sono consumati e più sono brutti e, soprattutto quando sono pubblici, sono trascurati, svalorizzati, degradati.
Per questo occorre dare un senso al camminare come forma di riappropriazione dello spazio, del nostro corpo nello spazio, come un modo concreto di fare mente locale. La montagna, e il nostro Appenino in particolare, sono tra i luoghi dove ancora il digital divide non è stato strutturalmente affrontato e superato. E’ certamente un’occasione di sviluppo perduta, ma fa della montagna uno spazio marginale dove è ancora possibile fare mente locale.  Per questo fare un’escursione in montagna può diventare l’esperienza di un altro mondo che si chiama natura, che si chiama umanità.

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