martedì 2 aprile 2013

Nel bramito del cervo

Atteone sbranato dai cani
Cosa cerchiamo quando andiamo per boschi? Qualcuno va per i frutti del bosco o per i funghi, qualcuno per passeggiare, qualcuno per i residuati bellici, qualcuno per gli alberi, i fiori o i muschi, qualcuno per gli animali, da osservare, da fotografare o da uccidere.
C’è sempre un’emozione particolare quando si incontra un animale in un bosco. Capita con i caprioli, con i cinghiali, con la volpe, con la lepre. Capita con l’improvviso alzarsi in volo dell’aquila, sorpresa dal nostro sopraggiungere mentre si riposa sotto le fronde di un grande abete rosso, oppure con il dolce planare dai rami di un gallo forcello sopra le nostre teste. Capita con i cervi, a settembre, nella breve stagione degli amori quando un bramito lacera il silenzio del bosco per affermare il primato sulle femmine contro i contendenti. Eppure quel lamento lascia presagire un significato più profondo.
Questi incontri con il mondo selvatico hanno una carica emotiva che va oltre il senso dell’imprevisto e dell’inusuale che li accompagna; costituiscono semmai una sorta di rivelazione. Il rivelarsi del selvatico lascia una traccia indelebile nel racconto di ogni escursione, quasi un marchio di autenticità.
Forse perché ci rivela  una alterità da cui ci sentiamo in qualche modo attratti o a cui sentiamo in qualche modo di appartenere. Pensiamo ai lunghi appostamenti a cui una sofisticata documentaristica ci ha abituati nel farci conoscere la vita più segreta degli animali, nel buio della notte e perfino all’interno delle tane. Che cosa spinge a tanto la curiosità dell’uomo rispetto al disvelamento della vita dell’animale selvatico? Che cosa si va cercando oltre l’etologia o il voyeurismo naturalistico?
Forse ci aiuta a descrivere il senso di questa rivelazione e di questo legame la storia di Atteone e Diana così come Ovidio la racconta nelle Metamorfosi e come Robert Harrison la interpreta in Foreste (pp. 39-42). Il giovane cacciatore Atteone, di ritorno da una sfortunata battuta di caccia, si perde nel bosco e non solo scopre le nudità di Diana, mentre si bagna nella luce chiara del meriggio, ma svela il mistero che Diana rappresenta e che non è dato all’uomo conoscere. Diana è la divinità delle selve e del selvatico, prima ancora che della caccia. Una vergine inavvicinabile che vive e si veste delle ombre e delle fronde del bosco e che del bosco e della vita dei suoi abitanti è la regina incontrastata e spietata. Per quella nudità osservata, per quel mistero svelato Atteone viene trasformato in cervo, ma senza perdere la consapevolezza d'essere uomo, da cacciatore si trasforma in cacciato e viene sbranato dai cani che lui stesso ha addestrato, senza potersi rivelare ad essi e ai suoi amici. Quale mistero ha violato Atteone? Forse la comune matrice del creato che unisce uomini, animali e divinità e che non può essere svelata perché toglierebbe ogni significato alle apparenze per cui e di cui viviamo. Atteone fa l’esperienza tragica del vivere in sé l'essenza comune all'uomo, all’animale e alla divinità senza poterla rivelare agli altri uomini, anzi morendone, perché prigioniero delle sembianze di cervo a cui è stato condannato. E’ forse questa comune matrice del creato che ci spinge nei boschi, oltre il nostro mondo di apparenze e che ci emoziona ogni volta che un animale selvatico attraversa il nostro cammino. Nel bramito del cervo non riecheggia solo la lotta per il predominio sul branco e sul territorio, ma forse anche il tragico grido di Atteone che non può disvelarci, pur avendolo potuto osservare, il segreto profondo della nostra comune essenza con la natura e che ci condanna a tornare a vivere nelle apparenze.

“C'era una valle coperta di pini e sottili cipressi,
chiamata Gargafia, sacra a Diana dalle vesti succinte,
nei cui recessi in fondo al bosco si trovava un antro
incontaminato dall'uomo: la natura col suo estro
l'aveva reso simile a un'opera d'arte: con pomice viva
e tufo leggero aveva innalzato un arco naturale.
Sulla destra in mille riflessi frusciava una fonte d'acque limpide,
col taglio della sua fessura incorniciato di margini erbosi.
Qui veniva, quand'era stanca di cacciare, la dea delle selve
per rinfrescare il suo corpo di vergine in acque sorgive.
E qui giunta, alla ninfa che le fa da scudiera consegna
il giavellotto, la faretra e il suo arco allentato;
si sfila la veste che un'altra prende sulle braccia;
due le tolgono i sandali dai piedi, e la figlia di Ismeno,
Cròcale, più esperta di queste, in un nodo le raccoglie i capelli
sparsi sul collo, che lei al solito portava sciolti.
Nèfele, Iale, Ranis, Psecas e Fiale attingono acqua
con anfore capaci e gliela versano sul corpo.
Mentre Diana si bagnava così alla sua solita fonte,
ecco che il nipote di Cadmo, prima di riprendere la caccia,
vagando a caso per quel bosco che non conosceva,
arrivò in quel sacro recesso: qui lo condusse il destino.
Appena entrò nella grotta irrorata dalla fonte,
le ninfe, nude com'erano, alla vista di un uomo
si percossero il petto e riempirono il bosco intero
di urla incontrollate, poi corsero a disporsi intorno a Diana
per coprirla con i loro corpi; ma, per la sua statura,
la dea tutte le sovrastava di una testa.
Quel colore purpureo che assumono le nubi se contro
si riflette il sole, o che possiede l'aurora,
quello apparve sul volto di Diana sorpresa senza veste.
Benché attorniata dalla ressa delle sue compagne,
pure si pose di traverso e volse il volto indietro.
Non avendo a presa di mano le frecce, come avrebbe voluto,
attinse l'acqua che aveva ai piedi e la gettò in faccia all'uomo,
inzuppandogli i capelli con quel diluvio di vendetta,
e a predire l'imminente sventura, aggiunse: 
«Ed ora racconta d'avermi vista senza veli,
se sei in grado di farlo!». Senza altre minacce,
sul suo capo gocciolante impose corna di cervo adulto,
gli allungò il collo, gli appuntì in cima le orecchie,
gli mutò le mani in piedi, le braccia in lunghe zampe,
e gli ammantò il corpo di un vello a chiazze.
Gli infuse in più la timidezza. Via fuggì l'eroe, figlio di Autònoe,
e mentre fuggiva si stupì d'essere così veloce. Quando
poi vide in uno specchio d'acqua il proprio aspetto con le corna, 
«Povero me!» stava per dire: nemmeno un fil di voce gli uscì.
Emise un gemito: quella fu la sua voce, e lacrime gli scorsero
su quel volto non suo; solo lo spirito di un tempo gli rimase.
Che fare? Tornare a casa, nella reggia, o nascondersi
nei boschi? Quello glielo impediva la vergogna, questo il timore.
Mentre si arrovellava, lo avvistarono i cani. [...]
Tutta questa muta, avida di preda,
per rupi, anfratti e rocce inaccessibili, dove la via
è impervia o dove via non esiste, l'insegue.
Lui fugge, per quei luoghi dove un tempo li aveva seguiti,
ahimè lui fugge i suoi stessi fedeli. Vorrebbe gridare: 
«Sono Attèone! Non riconoscete più il vostro padrone?». 
Vorrebbe, ma gli manca la parola. E il cielo è pieno di latrati.
Le prime ferite gliele infligge sul dorso Melanchete,
poi Teròdamas; Oresìtrofo gli si avvinghia a una spalla:
erano partiti in ritardo, ma tagliando per i monti
avevano abbreviata la via. Mentre essi trattengono il padrone,
il resto della muta si raduna e in corpo gli conficca i denti.
Ormai non c'è più luogo per altre ferite. E geme,
ma con voce che, se non è umana, neanche un cervo
emetterebbe, e riempie quei gioghi di lugubri lamenti:
in ginocchio, supplicando come chi prega,
volge intorno muti sguardi quasi fossero braccia.
I suoi compagni intanto con gli sproni di sempre aizzano ignari
il branco infuriato e cercano Attèone con gli occhi,
poi, come se fosse lontano, 'Attèone' gridano a gara
(al suo nome lui gira il capo) e si lamentano che non ci sia,
che per pigrizia si perda lo spettacolo offerto dalla preda.
Certo lui vorrebbe non esserci, ma c'è; vorrebbe assistere
senza dover subire la ferocia dei suoi cani. Ma quei cani
da ogni parte l'attorniano e, affondando le zanne nel corpo,
sbranano il loro padrone sotto il simulacro di un cervo:
e si dice che l'ira della bellicosa Diana non fu sazia,
finché per le innumerevoli ferite non finì la sua vita.”

Ovidio, Le Metamorfosi, Libro III

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