martedì 27 agosto 2013

Ogni caduto somiglia a chi resta

I Persiani al Cimitero di Guerra Germanico
Camminando da Barbiana a Monte Sole, nei pressi del Passo della Futa, a 954 mt s.l.m., capita di attraversare un pezzo di Germania in pieno Appennino tosco-emiliano. E’ il Cimitero di Guerra Germanico Futapass costruito nel 1969 su 12 ettari di collina messi a disposizione gratuitamente dallo Stato Italiano sulla base di un accordo con la Repubblica Federale di Germania e in uso perpetuo al Volksbund Deutsche Kriegsgräberfürsorge, l’organizzazione umanitaria tedesca che da decenni si è assunta il compito di ritrovare le spoglie di oltre tre milioni di soldati tedeschi morti nella Seconda guerra mondiale, di dare loro dimora in cimiteri come questo, sparsi in tutto il mondo, e di coltivare, soprattutto presso i familiari e le giovani generazioni, la loro memoria secondo il motto: “Riconciliazione sulle tombe – lavoro per la Pace”. Alcuni numeri descrivono questo luogo: 31229 caduti dei 110.000 soldati tedeschi morti sul fronte italiano e in particolare sulla Linea Gotica; 72 settori disegnano rettangoli sui morbidi pendii erbosi della collina su cui sono posate 16.000 lastre di granito grigio e su ognuna di esse sono scolpiti i nomi di due soldati. In alcuni casi invece una sola parola: unbekannte, sconosciuto.
Al cimitero si accede per uno stretto portale da cui inizia un muro in pietra arenaria lungo oltre 2000 metri che percorre a cerchi concentrici l’intera collina e che accompagna i passi del visitatore fino alla sommità dove un muro piramidale grigio punta diritto al cielo come un colpo d’ala, una scheggia inesplosa, una vela di pietra; unica linea verticale in un luogo che lascia spaziare lo sguardo dai prati coperti dalle lastre al profilo dolce dei crinali tutt’intorno, come a voler rinunciare di imporre al paesaggio circostante la propria angosciosa presenza, ma anzi cercando di trarre da esso un senso di distensione, di raccoglimento, di riflessione. In questo cimitero si entra sentendosi un po’ fuori luogo, come stranieri in terra straniera. Stranieri alla morte, prima di tutto. Stranieri alla percezione della guerra come immane esperienza di morte di massa, per cui sono stati pensati e costruiti cimiteri come questo, come i sacrari della Grande Guerra, per rendere tollerabile alla memoria dell’uomo questo pensiero incommensurabile, tenendolo circoscritto nei perimetri e nelle forme di questi luoghi. Ma c’è qualcos’altro. Davanti ai gruppi di familiari che fanno visita al loro caduto entrano in agitazione i nostri personali pregiudizi sul “tedesco”, sul “nemico”, sul “carnefice”, frutto dell’educazione, dell’immaginario e del vissuto di ognuno; si fanno attrito nella mente e dissonanza emotiva davanti alla spoglia anagrafe delle lapidi fatta di nomi e cognomi di persone, di età spesso troppo giovani, di corpi ricomposti e presenti sotto i nostri piedi; cercano infine rifugio in un silenzio per qualcuno assorto per altri smarrito, imbarazzato o inquieto.  Questo è un luogo dove portare ogni tanto le più radicate convinzioni del nostro antifascismo a respirare l’aria di queste montagne, sia di quelle dove si è fatta la Resistenza, sia di quelle alleate, che di questa tedesca.
Dieci anni fa, in questo cimitero di guerra, la compagnia teatrale Archivio Zeta mise in scena I Persiani di Eschilo, la tragedia in cui per la prima volta un greco vincitore dava la parola al nemico, ai vinti per piangere la disfatta, il dolore della sconfitta e quello più inconsolabile della distruzione e della morte. Ricordo che nella luce sospesa e calda del tramonto estivo, nell’ampio giro di orizzonte dei crinali e davanti ad un pubblico ammutolito e partecipe lo spettacolo si chiuse con queste parole: “Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. […] Ora che ho visto cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: "E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?" Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”
Queste parole chiudono La casa in collina di Cesare Pavese. Sono ripartito da questo luogo con questo ricordo, con qualche pensiero in più e un sentimento di pietà.

Post scriptum. L’altro giorno mi è giunta la notizia che è stato ritrovato il cadavere di un soldato tedesco in Appennino. E’ stato riconosciuto e portato al Cimitero di Guerra Germanico Futapass. Ora sono 31230.  

La fotografia è di Franco Guardascione

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