Monti Simbruini - Campo dell'Osso |
Dei fatti di Monte Livata di questi giorni, insieme con il sollievo per le vite salvate,
colpisce la facilità con cui la donna ha perso l’orientamento nel bosco innevato tra Campo dell'Osso, Monna dell'Orso e Acqua del Piccione e lo stato di smarrimento fisico e psicologico che ha condizionato le sue azioni
successive. Colpisce il senso di spaesamento che caratterizza ormai
il nostro rapporto con la natura selvatica, determinato da una distanza culturale sempre più incolmabile che ci separa da essa e da una disabitudine al
contatto fisico che ce la rende estranea e immediatamente ostile, quando non si
presenta in una forma addomesticata, magari da un impianto di risalita. Nel comportamento dei bambini stupisce invece
la capacità quasi animalesca di adattamento alla situazione: cadere in un
dirupo, dormire su un albero, al riparo di un anfratto tra le rocce, ascoltare
il rumore dei botti di fine anno come eco lontana di una festa di paese. Il
padre li ha chiamati eroi da cui prendere esempio per sopravvivere alla natura.
Qualcuno invece li ha paragonati ad Hansel e Gretel sperduti nel bosco. I
giornali hanno concentrato tutta la loro attenzione sui personaggi umani di
questa storia, sui particolari anche morbosi e scabrosi di ognuno: il calzino
perduto del bambino, le lacrime del soccorritore, la depressione della madre,
la giustizia in agguato. Nei resoconti non una parola viene spesa per
l’ambiente selvatico dei Monti Simbruini; appare come uno sfondo, quando nei
fatti è uno dei protagonisti principali di questa storia.
Indifferenti
alla natura ci ripaga con la stessa indifferenza.
Ci
accorgiamo della natura quando le storie non hanno un lieto fine, come nel recente
caso dell’incidente del pilota Schumacher o dello snowborder quindicenne
a Claviere rimasto vittima in un fuoripista o degli sciatori di Bardonecchia travolti dalle
valanghe di neve fresca, mosse da incaute escursioni. La natura allora non ci è
più indifferente: le rocce su cui il pilota sbatte la testa diventano “maledette”
e le valanghe provocate dall’uomo stesso vengono chiamate “assassine”. Un
tratto umano - la cattiveria - viene attribuito alla natura “selvatica” e diventa
la causa di morti e di incidenti per rimuovere il nodo irrisolto della responsabilità e del senso del limite delle azioni umane verso gli altri, sè stessi
e la natura. La dovuta pietà per le vite sospese o per quelle perdute si trasforma in un’ondata
emotiva per le vittime “innocenti” della natura malvagia che sospende la
nostra capacità di ragionare sulla contraddizione dell’attuale condizione umana: un
essere erroneamente convinto dalla tecnica delle proprie illimitate possibilità, ma
fragile e spaesato di fronte all’indifferenza della natura. E' questa indifferenza alla/della natura che ci rende estranei ai paesaggi in cui viviamo.
Nessun commento:
Posta un commento