lunedì 3 febbraio 2014

Siamo una frana

La mappa delle frane in Emilia Romagna
L’articolo del Corriere della Sera di questi giorni sembra un bollettino di guerra. Elenca le strade della provincia interessate dalle frane sull’Appennino. Le piogge sono state copiose e costanti, a tratti  violente e così continuerà per altri giorni. Fiumi come il Reno e il Secchia si sono ingrossati e gli allarmi della Protezione civile si susseguono sulla base delle previsioni meteorologiche. Lungo tutto il crinale appenninico i fronti franosi si sono rimessi in movimento. La montagna ha ripreso il suo cammino verso valle.
Niente che non fosse prevedibile. Le mappe regionali e nazionali  delle frane descrivono la storia e la dimensione del dissesto idrogeologico del nostro paese come una grande questione nazionale, al pari della disoccupazione giovanile, della lotta alle mafie, delle riforme istituzionali, ma senza la stessa attenzione.  La maggior parte delle cronache raccontano con toni allarmati solo l’emergenza ma non  sempre scavano sotto la superficie della notizia del giorno. Preferiscono far franare a valle dell’opinione pubblica episodi tragici, vissuti difficili, immagini desolanti e invettive estemporanee, come detriti della comunicazione, perché tutto si fermi lì, fino alla prossima emergenza. Raccontano spesso la stessa storia: la tranquilla vita dell’uomo sconvolta da una natura scatenata e ostile. Ma è proprio così?
I numeri del dissesto idrogeologico sono impressionanti. Le frane e le alluvioni sono le calamità naturali che si ripetono con maggior frequenza e causano, dopo i terremoti, il maggiore numero di vittime e di danni. Negli ultimi dieci anni sono stati spesi oltre 3,5 miliardi di euro con Ordinanze di Protezione Civile solo per far fronte a eventi idrogeologici. Le frane in Italia sono oltre 486.000 e coinvolgono un’area di circa 20.700 km2, pari al 6,9% del territorio nazionale (Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia -Progetto IFFI a cura dell’ISPRA e dalle Regioni e Province Autonome). Una recente inchiesta de La Stampa illustra la situazione con efficacia grafica. Mentre continuiamo a misurare solo su di noi l’entità dei danni delle frane, sottovalutiamo quelli naturali, riferiti all’impoverimento e alla perdita quantitativa e qualitativa del suolo su cui camminiamo a appoggiamo le nostre vite. Le frane provocano una perdita di suolo superiore a 10 tonnellate ad ettaro all’anno. L’erosione e il dilavamento del suolo producono a monte perdite di fertilità e di biodiversità per il territorio colpito. A valle i danni invece si scaricano sul trasporto solido dei corsi d’acqua, sulle infrastrutture, sul riempimento di bacini di irrigazione e idrografici, sull’inquinamento delle acque superficiali a causa dal trasporto di  concimi e antiparassitari.
Alcuni commentatori non rinunciano a cercare le cause di questo disastro. Denunciano il consumo eccessivo di suolo nelle opere di urbanizzazione nei centri urbani e il progressivo abbandono dei territori montani. Richiamano l’attenzione sui cambiamenti climatici che innalzano le temperature e rendono più violenti i fenomeni atmosferici. Reclamano rispetto per la natura. Invitano e ammoniscono l’uomo a riconoscere la sua fragilità.
La casa di Via della Fiera a Castiglione dei Pepoli minacciata dalla frana di Monte Baducco restituisce proprio quest’idea di fragilità di fronte alla natura in movimento. Una fragilità negata da comportamenti dettati troppo spesso da una presunta superiorità tecnica, da una indifferenza nei confronti della natura. Ma è anche una questione di memoria collettiva e quindi di cultura.
La casa e la frana
Quella casa in sasso, circondata dal fango e sfondata dagli alberi caduti sul tetto, abbandonata ora dai suoi abitanti, racconta la storia di tante case d’Appennino, costruite con gli stessi materiali di cui è fatta la montagna, sotto una montagna.  Mantiene nelle sue forme quell’idea originaria di rifugio dai rigori della natura che ha condizionato l’evoluzione dell’uomo nei secoli per cui al riparo di una grotta è seguita una capanna di fronde d'albero e poi di legno e fango, a cui è seguita una casa di pietre tagliate e travi, fino all’edilizia industriale della modernità e all’attuale bioedilizia. La casa è uno degli iconemi di ogni luogo perché definisce il senso dell’abitare dell’uomo, il significato del suo stare al mondo. Un tempio è quanto di più assomigli ad una montagna, che si erge verso il cielo, dimora inaccessibile delle divinità. Innalzare pali, mettere un mattone sull’altro, costruire tetti spioventi  è quanto di più assomigli alla posizione eretta dell’uomo che osserva il mondo e con la tecnica lo trasforma. Una tecnica volta a sfidare prima di tutto una delle leggi fondamentali della natura: la gravità. La stessa gravità che determina il cammino delle montagne e il movimento delle frane, in un gioco di forze per cui agli alberi, come alle opere dell’uomo è riservata la sola forza d’attrito. La casa che si alza al di sopra dell’altezza dell’uomo e che punta i suoi spioventi verso l’alto non è molto diversa dallo sguardo dell’uomo rivolto verso il cielo.  Non è un caso che il culmine dei tetti, le punte dei camini di molte case tradizionali, a diverse latitudini del mondo e a anche in Appennino, mostrano ancora simboli religiosi, teste d’animale e maschere votive rivolte alla divinità uranica per proteggere la casa, il luogo che l’uomo ha scelto dove abitare. La natura si personificava nelle divinità e l’uomo si rivolgeva alla divinità, come genius loci, per patteggiare con la natura i termini del suo abitare il mondo. Abbiamo dimenticato questa storia. Abbiamo lanciato la nostra sfida alla legge di gravità che governa le montagne e  oltre la cima delle montagne, oltre gli strati della biosfera, svuotando le stanze del cielo dei suoi abitanti e dimenticando che i nostri piedi restano piantati nella terra e quando la terra frana anche noi siamo una frana.

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