I segni del CAI |
Si
segna un sentiero per camminare in montagna il più possibile in sicurezza.
Si
segna un sentiero per rendere tollerabile il senso di incertezza che anima ogni
escursione, per esorcizzare il rischio latente di perdersi senza togliersi il
gusto dell’avventura e della scoperta. I segni possono essere chiari e precisi,
ben collocati ed evidenti ma sono comunque segni e quindi non possono che
indicare e alludere a ciò che non è in presenza, per cui l’interpretazione è
necessaria, l’errore sempre possibile e l’attenzione obbligatoria. Un
segno orizzontale bianco e uno rosso con smalto lucido sintetico sulla corteccia
leggermente scrostata di un albero, su un palo, sul muro di una casa, su una
roccia esposta sollecita proprio la nostra attenzione e ci rincuora quando
pensiamo di avere smarrito il percorso. Piccole placche di plastica in
corrispondenza di bivi ci danno la conferma che il sentiero che stiamo
percorrendo è quello che abbiamo scelto con l’aiuto della carta. Le frecce direzionali
disposte negli incroci più importanti
riportano le mete vicine, quelle intermedie e quelle finali insieme con
i tempi di percorrenza e dettano spesso il momento della sosta per rifocillarci
e fare il punto dell’itinerario fatto e quello ancora da fare.
Il
CAI e i suoi volontari sono gli attenti e gelosi custodi di questa semiotica del camminare. E
il termine semiotica non è inadeguato o sprecato se Umberto Eco, di questa disciplina che studia i segni e i modi in cui
hanno un significato, afferma che “l’oggetto della semiotica assomiglia di più
[…] a un paesaggio accuratamente ordinato dove tuttavia l’intervento umano
cambia di continuo la forma delle installazioni, delle costruzioni, delle
colture, della canalizzazione e così via. […] per cui la ricerca semiotica
assomiglia alle esplorazioni via terra, dove la traccia dei veicoli e dei
passi, e i sentieri tracciati per attraversare una foresta entrano a modificare
il paesaggio e ne fanno da quel momento parte integrante come variazione
ecologica.”
Camminiamo
dunque in un paesaggio in continuo mutamento, cercando di orientarci lungo il cammino
con un sistema di segni che sono parte del paesaggio e del mutamento stesso.
C’è abbastanza di che sentirsi smarriti.
La volpe marca il territorio lasciando deiezioni sulle pietre e l’olfatto è il senso istintivo che le consente di non perdersi. Per l’uomo è la vista il senso a cui i segni si rivolgono e i segni sono altro dal nostro corpo, sono il frutto della nostra capacità di previsione.
Il filo di Arianna per uscire dal labirinto, le briciole di pane e i sassolini di Hansel e Gretel e Pollicino per ritrovare nel bosco la strada del ritorno, ci ricordano, con miti e favole, che la paura dell’uomo per lo smarrimento di fronte alla natura selvatica è stata combattuta con la ragione, con il metodo e con la tecnica, cercando di produrre segni che fossero in grado di dare un ordine al caos naturale, una direzione sicura e un senso al nostro cammino.
In un passato non molto lontano la segnaletica più utilizzata era l’ometto, una piccola scultura piramidale di sassi che richiamava, in forma elementare, la figura umana. Era così che il viandante si orientava, con l'aiuto del sole e delle stelle, rispecchiandosi nella figura di questo compagno di strada di pietra che gli indicava il cammino dal crinale di una montagna, nelle praterie di alta quota, nello sfasciume dei ghiaioni.
E il tempo non è passato invano. Agli ometti si è aggiunta la bussola e poi la carta e una segnaletica sempre più rigorosa e curata e a questa ancora più di recente i sistemi di georeferenziazione satellitare su gps e smartphone che caricano mappe, tracce, waypoints nel tentativo, sempre approssimativo, di dare risposta in termini di sola misurabilità alla stessa ansiosa domanda: dove mi trovo? Mentre la domanda che conta per non smarrirsi veramente è: cosa ci faccio qui?
Infine riconoscere e seguire i segni lungo un sentiero oppure varcare la soglia dell’incerto ed entrare nel vagabondaggio può essere anche un piacevole gioco. Ma questa è un’altra storia.
La volpe marca il territorio lasciando deiezioni sulle pietre e l’olfatto è il senso istintivo che le consente di non perdersi. Per l’uomo è la vista il senso a cui i segni si rivolgono e i segni sono altro dal nostro corpo, sono il frutto della nostra capacità di previsione.
Il filo di Arianna per uscire dal labirinto, le briciole di pane e i sassolini di Hansel e Gretel e Pollicino per ritrovare nel bosco la strada del ritorno, ci ricordano, con miti e favole, che la paura dell’uomo per lo smarrimento di fronte alla natura selvatica è stata combattuta con la ragione, con il metodo e con la tecnica, cercando di produrre segni che fossero in grado di dare un ordine al caos naturale, una direzione sicura e un senso al nostro cammino.
In un passato non molto lontano la segnaletica più utilizzata era l’ometto, una piccola scultura piramidale di sassi che richiamava, in forma elementare, la figura umana. Era così che il viandante si orientava, con l'aiuto del sole e delle stelle, rispecchiandosi nella figura di questo compagno di strada di pietra che gli indicava il cammino dal crinale di una montagna, nelle praterie di alta quota, nello sfasciume dei ghiaioni.
E il tempo non è passato invano. Agli ometti si è aggiunta la bussola e poi la carta e una segnaletica sempre più rigorosa e curata e a questa ancora più di recente i sistemi di georeferenziazione satellitare su gps e smartphone che caricano mappe, tracce, waypoints nel tentativo, sempre approssimativo, di dare risposta in termini di sola misurabilità alla stessa ansiosa domanda: dove mi trovo? Mentre la domanda che conta per non smarrirsi veramente è: cosa ci faccio qui?
Infine riconoscere e seguire i segni lungo un sentiero oppure varcare la soglia dell’incerto ed entrare nel vagabondaggio può essere anche un piacevole gioco. Ma questa è un’altra storia.
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